Il nostro viaggio nelle aziende della strada del vino prosegue. Un’altra giornata di sole, all’inizio di novembre, ci accompagna alla visita dell’azienda Conte Emo Capodilista la Montecchia.
Un nome che richiama la storia della città di Padova e del territorio euganeo, una storia che inizia lontano nel tempo e nello spazio.
Siamo accolte dal Conte Giordano Emo Capodilista, un saluto veloce e ci accompagna in auto a visitare subito la villa detta la Montecchia.
Dalla collina la vista si apre sulla pianura che circonda Selvazzano, ma lo sguardo può spingersi oltre e subito colleghiamo geograficamente la torre fortificata il “Mottolo”, che è ancora oggi dimora della famiglia, con le altre costruzioni medievali fortificate del territorio, il castello di San Martino della Vanezza di Cervarese, il castello di Valbona, le città murate di Monselice, Este e Montagnana. Una linea immaginaria, ma ben delineata li collega e definisce con chiarezza le fortificazioni a salvaguardia della città di Padova dall’arrivo di truppe nemiche, una fra tutte quelle provenienti da Vicenza.
Una posizione strategica, che nei secoli si è rivelata fondamentale e luogo distintivo per la famiglia Capodilista.
Non è un errore citare il solo nome Capodilista, la famiglia si fuse con i nobili veneziani degli Emo solo quando l’ultima discendente dei Capodilista, Beatrice, sposò Leonardo nel 1783. Non era mai successo che una famiglia veneziana contemplasse il matrimonio con una famiglia dell’entroterra (e viceversa), ma si sa i tempi cambiano e così anche le abitudini, per amore quindi una regola secolare fu infranta e le due famiglie si unirono in un’unica dinastia.
La famiglia Capodilista ha origini antiche, non mi basterebbe tutto l’articolo per darvi conto della sua storia, mi limito a ricordare le antiche origini francesi della casata: i Transalgardi giunsero in Italia al seguito di Carlo Magno nel 774 per detronizzare Desiderio, ultimo re dei Longobardi.
Il nome Capodilista sembra fu assegnato ad uno dei fratelli, Carlotto, per la sua mansione di capitano (Capo) che per distinguersi indossava una fascia (lista).
Da allora le generazioni che si sono succedute hanno fatto grande il nome della famiglia: uomini d’arme, vescovi, mecenati, storici, ed oggi grandi produttori di vino.
Ecco dove siamo, immerse nella storia con lo sguardo attratto dalla villa che si staglia solitaria sulla cima della collina. Le facciate sono tutte perfettamente uguali, sono orientate secondo i punti cardinali e si nota immediatamente l’impostazione panoramica che l’architetto Dario Varotari volle darle.
La Montecchia nasce come padiglione di caccia (siamo all’interno di quella che un tempo era chiamata la “Selva di Giano” oggi Selvazzano), un luogo dove i proprietari potevano trascorrere delle gradevoli soste nelle belle stagioni, mancano infatti tutti quegli edifici di servizio di una vera e propria residenza o villa agricola.
Nei sotterranei però sono presenti le cucine, segno che la permanenza poteva essere allietata da feste e banchetti.
Entriamo, non posso per ragioni di tempo e spazio rendervi conto della bellezza esterna ed interna della villa, ma vi racconterò le sensazioni che ha suscitato in noi. Quando penso al bello in architettura penso all’armonia delle forme e delle misure, qui dentro l’armonia è quasi perfetta, un susseguirsi di forme geometriche perfette, ritmiche per le stanze, affreschi alle pareti, le scalinate che conducono al piano superiore si affacciano su tutti e quattro i lati. Il modulo del quadrato si ripete, con matematica precisione, all’interno e all’esterno.
Non bastasse tanta cura, il ciclo di decorazioni accompagna il visitatore a ripercorre il ciclo della vita, dall’infanzia all’età adulta, guidati dalla arti, fino alla maturità, quando ormai si è giunti in cima alla gradinata.
Una scenografia vera, che si ammira arrivandole vicino.
La villa gode di una posizione favorevole ad osservare il paesaggio dai Colli Euganei (meravigliosa l’infilata con la Montecchia, Praglia e Villa Vescovi in lontananza) fino alla Alpi. Un luogo incantato, che rimane sospeso nel tempo e nello spazio, dove la frenesia della vita contemporanea trova un angolo di serenità.
Ci facciamo guidare velocemente tra le stanze, da quella delle ville (in corrispondenza della posizione geografica dei possedimenti di famiglia sono affrescate le ville alle pareti) alla stanza delle vigne: siamo letteralmente immerse nei fitti vigneti che si ergono oltre una balaustra, un gatto sornione ci osserva accovacciato, chissà quante storie potrebbe raccontare.
Dalle logge osserviamo i vigneti, quelli veri. Il Carmenere, il Fior d’Arancio, il Merlot. Intorno alla villa i regolari filari si susseguono ordinatamente.
Non possiamo non addentrarci meglio nel mondo del Conte Giordano, fatto di grande passione per la storia della sua famiglia e per il suo vino, che cura personalmente, dalla vigna alla bottiglia.
Nulla è lasciato al caso, e seguendolo durante la visita è chiaro che il suo progetto arriva da lontano e ha grandi obiettivi. Penso che non potrebbe essere altrimenti, scorrendo le personalità che si sono succedute nella sua famiglia, mi rendo conto che lo standard è piuttosto alto.
Ha un grande amore per la sua terra, che coltiva con schietta passione, curandola e rispettandola per poter ottenere il meglio dalle sue vigne.
Un rispetto che si traduce sul campo con sostegni fatti con tronchi d’acacia, con l’esclusione di prodotti chimici in vigna, con un ciclo sostenibile che consente l’utilizzo della biomassa per il riscaldamento e dell’energia solare per la produzione di elettricità.
Una poiana spicca il volo da un albero non molto lontano da noi. Mi sembra grandissima, ho quasi timore di questo animale che libero si muove intorno a noi. Deve essere sempre la mia personalità “cittadina” che non mi consente di godere a pieno dell’ambiente naturale che mi circonda, dovrò esercitarmi di più.
Sempre dalla collina della villa osserviamo il grande stabile dove un tempo c’era il tabacchificio, uno stabile davvero imponente che oggi ospita tra le altre cose, il ristorante gestito dalla famiglia Alajmo (ecco un’altra intervista che devo assolutamente fare).
Il Sig. Giordano ci racconta la sua storia, un luogo dove lavoravano nella maggior parte donne le “tabacchine” che sono ritratte in un acquerello conservato nella casa di famiglia: le altissime stanze colme di foglie di tabacco ad essiccare coprivano le operaie mentre lavoravano.
Ci spostiamo, non potevamo chiedere tanto, e siamo accolte in casa, il quello che a me piace chiamare “castello”, dove la famiglia Capodilista ha sempre vissuto.
Ci accoglie l’aroma delle stufe in maiolica accese, e la storia, che fitta fitta è raccontata dai quadri alle pareti, dai tappeti, dalle scale in legno che accedono allo studio del Sig. Giordano, dai busti degli uomini di famiglia, dalle foto che ritraggono il Sig. Umberto, padre di Giordano.
Anche per la personalità del Sig. Umberto non basterebbe l’articolo, fu per Colli Euganei e la Provincia di Padova un importante rappresentante, impegnato a valorizzare un territorio che ha amato infinitamente.
Scorriamo le foto in bianco e nero del tabacchificio, osserviamo gli alberi genialogici appesi alle pareti, scorgiamo stanze in penombra dal corridoio, leggiamo i riconoscimenti ben distribuiti nello studio, ma non riusciamo a tenere il conto, la mia attenzione è attirata da mille particolari, dal panorama che si osserva dalle finestre, dal profumo delle stufe, dai racconti del Sig. Giordano, dalla sala da pranzo che mi accoglie silenziosa e maestosa.
Se fossi una food blogger o wine blogger, che dir si voglia, seria, vi avrei parlato con più attenzione dei vini dell’azienda La Montecchia, ma mi rimane ancora tempo?
No, credo di no. Vi invito all’assaggio, noi ce ne andiamo con una bottiglia di Donna Daria, il passito di Fior d’Arancio Docg, in una fredda sera d’inverno l’apriremo per degustare dolcissimi sorsi di storia.
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